Scritti / Racconti
Le macchine morte

Era proprio di fronte alla finestra della mia cucina, a venti metri, non di più. Si può dire che io l'abbia visto nascere e crescere, giorno dopo giorno.

La prima ad arrivare fu una vecchia auto giardinetta verde, con le guarnizioni di legno. Comparve all'improvviso, abbandonata là nottetempo, come un vecchio giocattolo dimenticato da un bimbo ormai cresciuto. Nel pratone stepposo, sotto il riflesso di un sole autunnale. Apparentemente non aveva un graffio, ma il motore doveva essere andato.

Ne seguirono altre, all'inizio un po' alla volta e poi sempre più rapidamente. Era interessante stare lì, sul balcone a guardare. Arrivavano per lo più di notte, vecchie carcasse e auto ancora in buone condizioni. Oggi non le rammento più tutte, naturalmente. Eppure non potrò certo mai dimenticare quando apparvero insieme, una mattina, due Prinz NSU. Avevano entrambe il tetto ammaccato e pensai alla dinamica del loro incidente, una sbandata, l'uscita fuori strada, alcuni progressivi capitomboli.

E ricordo soprattutto le stagioni. Le coupè, le cabriolet, le berline, le utilitarie, le station wagon e quella che per me fu la vera e propria epopea delle monovolume. Giungevano le auto e andavano via i pezzi. Almeno quelli sani.

Una foto, che scattai dopo qualche tempo riproduce un istante qualsiasi di quel multiforme panorama. A sinistra una specie di dolmen formato da una Volvo 740 grigia con sopra una Alfa 164 blu da un lato e dall'altro una Fiat Uno schiacciata da una Golf Cabrio verde: il tetto è una vecchia Fiat 600 bianca che fa ombra a un'altra Golf nera appiattita per terra, piegata nel mezzo, con le parti anteriore e posteriore rialzate, come la testa e la coda di una bestia ferita. Poi altri rottami tra i quali si distinguono un pulmino bianco sporco con una fascia azzurra laterale, una marmitta messa di traverso, il furgone celeste di una fabbrica di cucine, un bidoncino dell'acqua, alcuni radiatori, copertoni, parabrezza, specchietti retrovisori, tergicristalli, batterie, paraurti, motori, fanali, fari, catarifrangenti, sospensioni, freni a disco, freni a mano, leve del cambio, portiere, coprimozzo, serbatoi, sedili, coppe dell'olio, cinture di sicurezza, capote, cinghie di trasmissione, guarnizioni, semiassi, candele, bielle, turbine. Sullo sfondo appaiono anche alcune roulotte, caravan, parti di alcune dinette, componenti delle tolette, quindi moto di varie cilindrate, caschi sfondati appesi a rami metallici arrugginiti, un side-car.

Un giorno, poi, nel mucchio informe, apparve un nuovo ospite. Un grosso frigorifero bianco, con il filo elettrico tagliato, avanguardia della lunga teoria di elettrodomestici che giunsero a fare compagnia alle auto. Non che queste abbiano tutto ad un tratto cessato di arrivare. Solo che da quel momento non furono più sole. Lavatrici, lavastoviglie, cucine e altri frigoriferi si ammonticchiarono tra le lamiere metallizzate. Seguirono televisori, radio, scaldabagni, macchine per cucire, apparecchi radiologici, microscopi, telescopi, deltaplani a motore, lampade al neon e tutti gli ingranaggi, i condensatori, gli evaporatori, i filtri, i compressori, le leve, le molle dei vari apparecchi.

La mia divenne un'osservazione più curiosa e fantastica. A molti di quegli oggetti cercavo di associare una storia, dei volti, dei luoghi. Ognuno portava con sé memorie, forse banali, quotidiane, di persone che non conoscevo, di case, di piccoli eventi. Un'auto poteva essere stata testimone di un viaggio di nozze, di un incidente stradale, di una rapina, di una prestazione sessuale a pagamento. E persino un piccolo frullatore avrebbe potuto raccontare di una cena importante, decisiva per la vita di qualcuno. L'anta metallica di un frigorifero aveva forse ospitato magneti dalle forme più strane, collezionati da una ragazza dagli occhi brillanti.

All'incirca quando apparvero i tostapane, acquistai un binocolo. Cominciavo ad essere attratto dai particolari. Uscivo sul balcone, mi mettevo ad osservare e scoprivo cose che per lunghi anni non avevo mai guardato con attenzione, i volanti enormi di auto fuorimoda, ciuffi di erba che spuntavano fra i sedili, gli scaffali di plastica dentro ai frigoriferi, poggiatesta strappati, vetri fumé, manopole colorate, bruciate, gli abitacoli sventrati delle autoradio, i teschi sulle leve del cambio.

Il binocolo mi tornò molto utile quando, dopo frullatori, aspirapolveri, telefoni dalle forme più strane, forni a micronde e computer e hi-fi iniziai a vedere i primi walkman, e poi i cellulari, da prima grandi come citofoni, poi sempre più piccoli. Riuscivo a distinguerne i dettagli, le tastiere e i display, le antenne spezzate. Ammetto di aver cominciato a pensare che anche in quel mio museo di rifiuti metallici, la microtecnologia avrebbe determinato una mutazione delle forme contorte che si sviluppavano davanti alla mia finestra, con le torri che si sarebbero protese vero l'alto non più attraverso strambe e pericolanti armonie, ma in una banale prospettiva ascendente. Sbagliavo.

Avete presente quei piccoli robot che andavano di moda tempo fa, i primi, quando funzionavano ancora con il telecomando? Era di mattina, mi pare fosse inverno, sicuramente pioveva perché quando l'ho visto, esanime sulla scocca di quella che forse era una Panda, con gli arti telescopici abbandonati in una posizione innaturale, dalle rigide protuberanze nervose gocciolava acqua giallastra. Poi ne vennero altri, di sempre più recenti generazioni, e con loro spinotti, microcircuiti, bulbi oculari sintetici, schermi olografici, elettrodi. Prodotti straordinari e sempre più autosufficienti, dotati di memoria, capacità di linguaggio e di pensiero autonomi.

Una mattina vidi il corpo di un uomo e nel pomeriggio, insieme ad altri quattro, era già uno scheletro.

Da allora ho cominciato a scappare.
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